L’articolo porta all’attenzione un’ordinanza della Corte d’Assise di Busto Arsizio che, in relazione ad una vicenda giudiziaria riguardante delitti gravissimi (omicidio aggravato ex art. 577, comma 2, c.p. e art. 61 n. 2 c.p. e distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere di cui all’art. 411 c.p., commesso al fine di occultare l’omicidio), dispone l’invio del caso al Centro per la Giustizia Riparativa (CGR) del Comune di Milano al fine di verificare la fattibilità di un «programma di giustizia riparativa», anche con «vittima aspecifica».
Si tratta di una delle prime applicazioni della disciplina organica della giustizia riparativa, introdotta con la c.d. riforma Cartabia. Il provvedimento ha avuto notevole risonanza mediatica e pressocché tutti i giornali hanno dato risalto alla notizia. L’ordinanza sollecita molteplici interrogativi sui punti di intersezione fra procedimento penale e giustizia riparativa. Un primo delicatissimo tema riguarda il “peso” che l’autorità giudiziaria, nel decidere se inviare o meno il caso ai CGR, deve attribuire alla volontà contraria dei familiari della vittima. Un altro gruppo di nodi problematici attiene ai poteri valutativi dell’autorità giudiziaria in sede di invio. Che si possa discutere dell’attuazione di modelli di giustizia riparativa anche nell’ambito di reati gravissimi e già durante la fase di cognizione è un segno del fatto che la riforma Cartabia ha posto le basi per un mutamento di sistema, in primo luogo di tipo culturale. È un cambiamento, a nostro parere, atteso e complessivamente auspicabile. Ciò non significa che l’ingresso degli istituti e delle prassi di giustizia riparativa nel sistema penale non debba avvenire con cautela, tenendo in considerazione la pluralità degli interessi in gioco.
L’articolo è consultabile sulla rivista Sistema Penale e scaricabile da qui.